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Le chiedono con forza sempre maggiore sia i rivenditori che i consumatori. Se ne sta occupando la FAO Da dove provengono gli scampi che state per gustare? Lo sapete? È possibile che una tartaruga di mare sia stata accidentalmente uccisa mentre venivano pescati? Sono stati forse allevati dove una volta vi era una palude di mangrovie, tesoro di biodiversità? E la zuppa di pesce che avete appena ordinato? Il salmone d’allevamento che contiene è sano? L’impianto di itticoltura marina da cui proviene è inquinante, o produce in modo responsabile? Chi avrebbe mai potuto immaginare che mangiare pesce potesse essere così complicato? Ma con la maggiore richiesta di pesce a livello mondiale – e la conseguente maggiore quantità proveniente da allevamento rispetto a quello pescato in mare aperto (il 45% di tutto il pesce consumato oggi) – sia i rivenditori che i consumatori sono sempre più attenti alla sua provenienza e alla sua sicurezza. Gli esperti affermano che la certificazione è uno dei modi possibili per uscire dalla confusione. La certificazione di un prodotto ittico indica, essenzialmente, se il processo produttivo è sostenibile, sano, socialmente responsabile e a basso impatto ambientale. Questa pratica è stata adottata sempre più spesso sia per il prodotto pescato in mare aperto, che per quello d’allevamento. Venditori e consumatori sono a favore della certificazione, ma è un tema che ha suscitato non poche controversie. “Stabilire schemi di certificazione trasparenti, equi ed affidabili non è una cosa semplice”, spiega Lahsen Ababouch del Dipartimento Pesca e Acquacoltura della FAO. “Chi decide le norme? Come possono i produttori esser sicuri che si basino su procedimenti scientifici corretti? Sono troppo difficili da applicare per gli itticoltori poveri dei paesi in via di sviluppo? Sono forse una copertura per dissimulare misure protezionistiche nazionali? Fino a che punto gli standard stabiliti dal settore privato devono integrare le politiche governative di protezione dei consumatori e come si possono conciliare tra loro? Sono queste le questioni da risolvere. Inoltre, con il moltiplicarsi dei programmi di certificazione, consumatori e produttori sono costretti a decidere di cosa possono fidarsi. Schemi di certificazione concorrenti potrebbero confondere i consumatori, provocando una perdita di fiducia nelle normative e mettendo a repentaglio l’intera questione. Armonizzare le norme di certificazione Di recente la FAO ha iniziato a collaborare con il Network no-profit dei Centri di Aquacoltura dell’Asia e del Pacifico (NACA) per effettuare delle consultazioni su larga scala – cui prendono parte gruppi di enti certificatori, produttori, oltre a varie associazioni di operatori del settore della trasformazione industriale e di consumatori – finalizzate all’elaborazione di linee guida globali relative alla definizione e all’applicazione delle normative per la certificazione dell’acquacoltura. “L’idea è di mettere insieme un vasto gruppo composto da tutte le componenti coinvolte nell’industria ittica, fare il punto su ciò che già è stato fatto in termini di certificazione ed elaborare un quadro di riferimento che possa aiutare a porre a confronto gli schemi di certificazione per l’acquacoltura,” sostiene Rohana Subasinghe, anch’egli del Dipartimento Pesca ed Acquacoltura della FAO. “Ciò contribuirebbe ad assicurare che gli standards di certificazione, ovunque vengano applicati, siano credibili, attendibili ed equi, oltre che idonei ad indicare ai produttori quali siano esattamente gli obiettivi da perseguire”. Le linee guida non saranno norme di certificazione vere e proprie ma piuttosto una roadmap condivisa che aiuterà a garantire che chiunque certifichi un prodotto ittico d’allevamento – si tratti di un governo, di una ONG o di una società – proceda come tutti gli altri, ha aggiunto.
Il gruppo ha recentemente tenuto il suo primo seminario a Bangkok. L’evento ha riunito i 72 rappresentanti di altrettanti enti di certificazione, associazioni di itticoltori, governi, e grandi compratori provenienti da 20 paesi, tra le regioni del mondo più importanti per la produzione e l’importazione di prodotti di acquacoltura. “C’è stato ampio consenso sulla roadmap proposta, cioè sul fatto che gli schemi di certificazione dovrebbero riguardare quattro aree principali: la sicurezza igienico-sanitaria e la qualità del cibo, l’impatto sociale dell’allevamento ittico sulle comunità locali, i temi legati all’ ambiente e la fattibilità economica”, ha osservato Ababouch. Più avanti è previsto un seminario in Brasile, a seguito del quale la FAO e la NACA intraprenderanno una serie di consultazioni pubbliche su queste questioni con le varie parti in causa, con l’obiettivo di presentare una bozza di linee guida internazionali da sottoporre poi all’attenzione dei governi al prossimo incontro della Commissione FAO per l’Acquacoltura, che si terrà in Cile nel novembre 2008. LA FAO ha già predisposto delle linee guida simili per l’eco-etichettatura dei prodotti ittici di mare aperto e delle acque interne. (Fonte: fao)
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